Intervista al Presidente sulla riforma
15 Maggio 2017SENATO DELLA REPUBBLICA I COMMISSIONE AFFARI COSTITUZIONALI
28.04.2016 AUDIZIONE INFORMALE DDL 2271
Anzitutto riteniamo necessario ringraziare il Presidente e tutti i componenti della Commissione Affari Costituzionali per l’occasione che ci forniscono di portare il contributo della nostra esperienza in occasione di una discussione importante come quella avente ad oggetto il disegno di legge di istituzione del fondo per il pluralismo e l’innovazione tecnologica nel settore dell’editoria. Il testo è frutto di un importante dibattito, che si è svolto presso la Commissione cultura della Camera, cui hanno partecipato vari esponenti: tecnici, giuristi, economisti, sindacalisti, giornalisti, editori e, in generale, operatori dell’informazione. Ma occorre dire che il testo approvato dalla Camera è, nella sostanza, lo stesso presentato dai firmatari del disegno di legge. L’esigenza di fare una riforma in tempi rapidissimi ha, probabilmente, prevalso sulla valutazione di fare una buona riforma in tempi rapidi.
In linea generale sembra che tutte le forze politiche concordino sulla necessità di sostenere un’informazione autonoma ed indipendente, quella informazione che Habermas ha definito un bene pubblico, cercando un giusto equilibrio tra mercato e garanzia pubblica di pluralismo.
Il testo attualmente in discussione è una riforma, per quanto parziale, necessaria in un momento così particolare per l’intero sistema dell’informazione.
Noi chiediamo solo di soffermare l’attenzione su pochi punti che sono essenziali per la sopravvivenza delle imprese che proprio il testo intende tutelare nei principi generali; ma che, invece, per alcuni profili sembra nascere da un’incompleta conoscenza del settore di riferimento.
I principi generali
Il sostegno al pluralismo non è solo sancito espressamente dall’articolo 21 della nostra Costituzione, ma anche dall’articolo 11 della carta dei diritti fondamentali dell’uomo che prevede che gli Stati debbano garantire il pluralismo. La giurisprudenza comunitaria con grande costanza ha evidenziato come questa garanzia non vada concessa unicamente con misure regolamentari, ma con politiche attive di sostegno. E questa circostanza trova conferma in una ricerca condotta dall’università di Oxford, ”L’aiuto dello Stato ai media”, in cui è stato misurato in euro l’intensità pro-capite del contributo pubblico al pluralismo; contributo che variava (fino a qualche anno fa, ndr), da un massimo di 1.307 euro in Finlandia ad un minimo di 43,1 euro dell’Italia”. Da allora i contributi italiani all’informazione si sono ulteriormente ridotti, confermando il nostro Paese come fanalino di coda nel sostegno al pluralismo in Europa.
Necessità di garantire l’Indipendenza dal potere esecutivo
Anzitutto se si decide di finanziare alcuni tipi di imprese editoriali, è giusto dettare regole rigide in un quadro di certezza del diritto. Ma la certezza del diritto prevede la necessità di conoscere subito le regole del gioco, non essendo ipotizzabile – e tra l’altro con rilievi di costituzionalità recentemente posti da alcuni giudici – il mantenimento dell’attuale sistema in cui il diritto delle imprese che producono informazione è subordinato, nella quantificazione, alle decisioni finanziarie del Governo. E, quel che è più grave, un qualsiasi Governo può di anno in anno decidere di abolire di fatto il contributo semplicemente svuotando il Fondo per l’Editoria. È chiaro che un simile modello non è sostenibile economicamente per nessuna azienda e non è nemmeno garanzia di pluralismo e indipendenza dell’informazione. Indispensabile per garantire quei diritti, che sono la finalità e la ragion d’essere dei progetti di legge in discussione, è garantire il diritto soggettivo ai finanziamenti, una volta dimostrata la regolarità della propria posizione ed il rispetto di tutte le norme di legge. Vale a dire che, se la legge prevede puntualmente le modalità di determinazione del contributo, l’impresa ha diritto a percepire quelle somme; si tratta di un problema di certezza del diritto. In alternativa, ove vi fossero problemi di liquidità nelle casse dello Stato, sarebbe ipotizzabile compensare la parte che non si riesce a liquidare concedendo alle aziende un credito d’imposta corrispettivo, con cui pagare tasse o contributi dell’anno successivo. O ancora prevedere che lo stanziamento a favore delle imprese che vengono ritenute qualificate sotto il profilo soggettivo ed oggettivo abbiano una garanzia fissata dal legislatore stesso sulla percentuale dello stanziamento a loro destinato, in modo che venga garantita l’autonomia delle stesse dai Governi.
Il Presidente Renzi ha recentemente sostenuto che il Governo vuole provvedimenti legislativi autonomi da successivi adempimenti applicativi. L’articolo 2 del testo, invece, concede un’ampia delega al Governo – con criteri che, per quanto appaiono puntuali ad una prima lettura, sono invece generici ed indefiniti – e rimanda al Governo stesso la definizione della legislazione di dettaglio. Questa prospettiva legislativa, anche se chiaramente ispirata alla logica di una celere approvazione della riforma, sembra, in contraddizione con i recenti orientamenti del Governo stesso.
In realtà una serie di deleghe potrebbero essere trasformate da subito in norme di dettaglio, in modo tale che da un lato si possa garantire l’immediata applicazione della nuova normativa e dall’altro, anche sotto il profilo istituzionale, sottrarre del tutto il potere legislativo al Governo su un tema delicato come quello del pluralismo.
Il contributo di solidarietà
Un altro profilo che andrebbe approfondito è la previsione nell’attuale testo di un contributo di solidarietà a carico delle concessionarie di pubblicità e di tutte le imprese editoriali che andranno ad alimentare il fondo in ragione dei redditi prodotti. L’impressione è che questo contributo nasca da un’esigenza avvertita da parte di alcuni di tassare i redditi prodotti dai motori di ricerca e dai social network che utilizzano spesso contenuti di altri; al tempo stesso, però, sembra anche non tener conto della di crisi dell’intero settore, degli effetti in termini di effettiva capacità di apportare risorse al fondo e di un problema di base, ossia individuare quali tipo di imprese debbano essere chiamate a sostenere il pluralismo nel nome di un interesse collettivo. Proviamo, allora, ad invertire il ragionamento e partiamo dalla constatazione che nel corso dell’ultimo anno i giornali nostri associati, che insieme vendono centinaia di migliaia di copie al giorno, non hanno avuto accesso a nessuna delle campagne di comunicazione delle grandi aziende italiane. Non parliamo solo di quelle private, ma anche dell’Expo, dell’Eni, delle Poste. Questo probabilmente perché si tratta di tante piccole realtà scollegate tra loro, cosa che rende oneroso per le grandi aziende ricercare, contrattare ed acquistare spazi pubblicitari su tutte queste piccole testate. Ma uno dei grandi problemi della piccola editoria è proprio che la grande pubblicità è per loro un tabù. Probabilmente, se queste testate avessero accesso a questi canali pubblicitari, non avrebbero bisogno di un sostegno statale per sopravvivere, ma correrebbero d’altro canto il rischio di diventare ostaggio dei grandi inserzionisti pubblicitari e la libertà e l’indipendenza dell’informazione sarebbero comunque, per certi versi, a rischio.
Uscire da questo dilemma e risolvere allo stesso tempo il problema del finanziamento del Fondo per l’editoria è, secondo noi, possibile.
Basterebbe introdurre per le grandi aziende (quelle, per esempio, con fatturato superiore ai cento milioni di euro), che hanno grandi interessi da tutelare (pensiamo alle banche, alle assicurazioni, ai grandi gruppi del settore alimentare o industriale), un contributo al pluralismo in misura infinitesima rispetto al valore della produzione (per esempio lo 0,05%). Parliamo di valori irrisori rispetto ai bilanci di queste imprese (nel nostro esempio si tratterebbe di 50mila euro ogni cento milioni di fatturato) da destinare al sostegno del pluralismo. Ecco che il fondo per l’editoria sarebbe finanziato a costo zero per lo Stato. In cambio, le aziende usufruirebbero ovviamente di una detrazione fiscale per la quota versata ed avrebbero inoltre diritto a pubblicare il proprio materiale pubblicitario sui giornali che fruiscono del contributo al pluralismo.
Si tratterebbe di una vera rivoluzione in cui sarebbero i grandi soggetti dell’economia ad alimentare un sistema diffuso di informazione che garantisca a tutto il sistema Paese un maggior livello di autonomia, libero – al contempo – da condizionamenti politici.
Carta e Digitale
Prima di entrare nel merito dei disegni di legge riteniamo, però, utile soffermarci su un tema molto dibattuto, ma sul quale ci piacerebbe portare la nostra esperienza specifica: il tema dell’innovazione tecnologica, di processo o di prodotto. Sembra che un argomento fondante del discorso sia, infatti, quello di individuare come obiettivo del sostegno chi è in grado di fare innovazione, confondendo, a nostro avviso, due profili diversi dell’informazione: lo strumento di distribuzione dei contenuti ed i contenuti stessi.
Abbiamo l’impressione che il tema dell’innovazione venga spesso trattato sulla scorta di una sorta di dicotomia tra un modello vincente, il digitale, ed uno perdente, il cartaceo.
Riteniamo che non sia così. I giornali cartacei possono avere ancora una funzione, a condizione che rispondano in maniera seria ed innovativa, alla domanda d’informazione; così come i giornali web possono avere contenuti anche di altissimo livello, a condizione che rientrino nell’ambito di un serio progetto editoriale e che non abbiano come obiettivo i click. Il problema, quindi, è cosa deve essere oggetto di tutela, se lo strumento, e quindi il passaggio al digitale come premessa per l’innovazione, o il contenuto? A nostro avviso la risposta è semplice e, quindi, ci permettiamo di invitare tutti a concentrare l’attenzione non sui termini “carta” e “web”, ma sulla capacità delle redazioni di produrre effettivamente contenuti interessanti, innovativi ed autonomi.
Qualcuno, anche durante la discussione alla Camera dei Deputati, ha parlato di questo tema dando per scontato che l’informazione su carta sia il vecchio, anzi che sia già morta, un fardello del passato. Ma se andiamo a guardare la realtà ed i numeri non è così.
Innanzitutto i principali portali internet di informazione generalista, quelli che veicolano la quasi totalità del traffico, sono espressione di redazioni strutturate di giornali cartacei medio-grandi. Il resto, a parte qualche lodevole eccezione, è un marasma di copia e incolla, click-baiting, bufale e junknews: informazione spazzatura. Questo dimostra che per fare informazione occorrono grandi investimenti in personale specializzato. Ma il mondo digitale non offre al momento le risorse per effettuare questi investimenti ed è molto lontano dall’essere economicamente autosufficiente.
Quanti ricavi produce, infatti, l’informazione sul web? Prendiamo un gruppo medio-grande come Caltagirone Editore (Mattino in Campania, Messaggero nel Lazio, Gazzettino Veneto, Corriere Adriatico, Quotidiano di Puglia): un gruppo che nell’ultimo decennio ha fatto importanti investimenti sui portali internet. Ebbene nell’ultima relazione trimestrale il gruppo ha enfatizzato l’aumento di ricavi da vendita di copie digitali, arrivato a rappresentare il 6% del totale delle vendite. Vuol dire che il 94% dei ricavi della vendita di copie proviene dalle edizioni cartacee. E ancora, lo stesso gruppo ha aumentato il proprio fatturato di pubblicità online che è arrivato a rappresentare l’11,6% dei ricavi pubblicitari. Il che vuol dire che l’88,4% dei ricavi pubblicitari proviene ancora dalle edizioni cartacee. Eppure questi risultati vengono ritenuti ottimi. Il che significa che la maggior parte dei gruppi editoriali più piccoli ha ancora meno ricavi dal web.
Quindi senza la carta, oggi, e forse anche domani e dopodomani, non esisterebbe l’informazione, anche digitale, che oggi abbiamo.
Guardare al futuro è necessario, ma non si può prescindere dal presente.
Contributi vincolati alle vendite e tetti parametrati ai ricavi: pericoli
Ci sono poi altre due previsioni, tra loro collegate, nel progetto di legge attualmente in discussione, che pongono non pochi problemi. Si afferma di voler legare sempre più il sostegno pubblico al numero di copie vendute, e poi di mettere anche un tetto massimo al contributo, nella misura del 50% dei ricavi (copie e pubblicità) della testata. È chiaro che queste norme sono volte ad evitare il fenomeno, presentatosi in passato, di giornali che non arrivavano nemmeno nelle edicole, essendo realizzati per mandare direttamente le copie al macero.
Condividiamo pienamente lo spirito della norma, non la sua formulazione.
Innanzitutto quel fenomeno dei giornali-fantasma è già stato superato da precedenti riforme, per cui oggi parte del contributo è legato anche al numero di copie vendute in edicola, con esclusione delle vendite in blocco; inoltre la legge prevede anche che debbano essere rispettati dei parametri di efficienza tra il numero delle copie prodotte e quelle copie effettivamente vendute.
Ora si vogliono introdurre parametri molto più restrittivi. Ma bisogna fare attenzione, perché il risultato finale può paradossalmente arrivare a contraddire le finalità di questa legge, ovvero la tutela del pluralismo dell’informazione e quindi il sostegno all’informazione minoritaria.
In primo luogo, infatti, si prevedere di dare un contributo maggiore a chi vende più copie e ha un fatturato di pubblicità più alto, il che equivale a dare più soldi a chi già è più ricco e quindi ne ha meno bisogno: una sorta di Robin Hood al contrario.
In secondo luogo, così facendo si penalizzano le realtà più svantaggiate, anche geograficamente, aumentando il divario Nord-Sud, anche sul piano dell’informazione e della diffusione della cultura. È chiaro che un giornale locale fatto a Varese avrà fatturati più alti rispetto ad un giornale locale di Benevento o Cosenza o Campobasso, dove gli indici di lettura sono i più bassi d’Italia ed il tessuto imprenditoriale che può fornire pubblicità è estremamente più debole. Con i tetti che si stanno prevedendo verrebbero favorite le realtà editoriali delle aree più sviluppare del Paese, costringendo, quindi, buona parte dei giornali, in particolare del Sud, a chiudere.
In terzo luogo, si favoriscono i giornali più grandi, su base multiregionale o nazionale, rispetto a quelli locali, su base provinciale o regionale. Anche così si tradisce lo spirito della riforma.
Anche sul piano dei contenuti si premierebbero i giornali che diffondono idee più condivise, maggioritarie, rispetto ad altri giornali che si rivolgono a minoranze, religiose o linguistiche o di pensiero: premiare chi vende di più rischia di spostare i giornali verso contenuti di caratura più bassa e popolare, che più facilmente raggiungono una massa più ampia di lettori. Ad esempio, si tenderebbe a vendere più copie mettendo in prima pagina il gossip piuttosto che le inchieste sulla criminalità organizzata e sull’operato delle pubbliche amministrazioni. Siamo sicuri che lo spirito della legge sia questo?
Ma anche inquadrando questo parametro da una prospettiva diversa i dubbi rispetto alla formulazione emergono con ancora più forza; infatti condividiamo la necessità di razionalizzare il sistema di sostegno, tendendo conto che in precedenza si è assistito all’erogazione di contributi anche di importi consistenti a favore di imprese editoriali che non generavano ricavi. E nel corso delle varie audizioni e dei lavori parlamentari è emersa l’esigenza che, comunque, il contributo non potesse rappresentare il maggior ricavo per le imprese editoriali. Il che rientra in una logica di razionalizzazione dell’intervento pubblico a tenore della quale il contributo integra gli altri ricavi, ma non si sostituisce a questi. Ma l’attuale norma così formulata non prevede che il contributo non possa essere superiore al totale degli altri ricavi, ma al 50% degli stessi; in altri termini, comunque, per come è scritta attualmente la norma, il contributo non può essere superiore al 33% dei ricavi. Per questa ragione – ed anche in linea con gli esiti del dibattito che si è svolto alla Camera – si ritiene che il principio della norma sia corretto, ossia che i ricavi da contributo non possano essere superiori agli altri ricavi, ma che gli stessi vadano limitati in una percentuale non inferiore all’80% degli altri ricavi, al fine di evitare che una declinazione di principio, corretta sotto l’aspetto teorico, in assenza di un’analisi specifica delle imprese, testimoniata dalla tabella proposta, determini la chiusura delle imprese oggetto di tutela. A tal proposito abbiamo predisposto una tabella, allegata alla presente relazione, desunta dai dati reali di alcuni quotidiani e periodici nazionali e locali, che mostra il contributo maturato nel 2014 e il contributo che avrebbero maturato con la “tagliola” del 50% prevista dal disegno di legge in discussione. Ebbene, i risultati sono esattamente quelli attesi: i quotidiani locali subirebbero un taglio a volte enorme del contributo e sarebbero costretti alla chiusura, mentre periodici e quotidiani nazionali riceverebbero mediamente contributi molti più alti, arrivando addirittura in un caso a triplicare l’attuale livello contributivo.
Dunque, per evitare queste mostruose ed ingiustificate disparità, o si fissa una soglia molto più alta, di almeno l’80% dei ricavi, oppure si delega il governo a studiare un sistema in cui il tetto sia diverso a seconda della diffusione (nazionale o locale) e/o in base ad alcuni parametri economici della zona di diffusione (Pil procapite, indice di lettura procapite eccetera).
Non profit
Sempre nell’ambito della delega si registra poi una iniqua differenziazione tra le cooperative giornalistiche e tutto il mondo del non profit che, a vario titolo e con norme specifiche come il divieto di distribuzione degli utili, rappresentano una garanzia del pluralismo, attarverso centinaia di imprese che editano periodici, quasi sempre locali, e quotidiani, anche di grande qualità. La norma nell’attuale formulazione prevede che il Governo nell’ambito della propria delega debba prevedere l’esclusione dalla platea dei beneficiari per le imprese editrici di quotidiani e periodici partecipate da cooperative, fondazioni ed enti morali in tre anni. Si tratta di fissare per legge, anzi per delega, la chiusura di un mondo essenziale per il pluralismo, con ricadute occupazionali molto importanti e la chiusura di diverse testate giornalistiche. Eppure il settore del non profit, ed il suo sviluppo in ambiti di particolare valore sociale, come quello dell’informazione, sembrano parte essenziale di un percorso di razionalizzazione del sistema di sostegno al pluralismo. In questa prospettiva riteniamo interessante che questa Commissione approfondisca questo tema valutando bene gli effetti in termini di pluralismo e di impatto occupazionale di una norma del genere che potrebbe, invece, essere temperata introducendo un sistema di controllo specifico per questo tipo di soggetti che nel panorama italiano rappresentano una specificità molto interessante e, in buona parte, un modello anche per il futuro dell’informazione.
Periodici scientifici e di informazione non generalista
Il disegno di legge prevede inoltre che, nell’ambito della delega, il Governo debba escludere le pubblicazioni di carattere tecnico, specialistico e scientifico. Una previsione del genere pone due profili di criticità. Il primo è che una norma siffatta prevede un’analisi dei contenuti; in altri termini si consente al Dipartimento informazione editoria e, quindi, al sottosegretario di Stato, di entrare nel merito del tipo di pubblicazione con una valutazione che non può che essere arbitraria in un settore complesso e delicato come quello dell’informazione. In altri termini chi dovrà valutare se una pubblicazione ha interesse generale o va considerata come giornale specialistico? A titolo esemplificativo, si pensi ad un periodico che tratti esclusivamente di informazione libraria, recensendo le nuove uscite ed intervistando gli autori (basta pensare all’ormai purtroppo chiuso Wuz); o ad un periodico che affronti con rigore temi di carattere politico internazionale. Da un lato esiste il problema dei criteri di valutazione e, dall’altro, il rischio di escludere dai soggetti qualificati proprio gli editori che si caratterizzano per la qualità dell’informazione prodotta. In altri termini, con una norma del genere si rischia di favorire tra una pubblicazione generalista di gossip ed una tematica, ma di qualità, la prima. Crediamo, quindi, che sia necessaria una riflessione sul contenuto di questa delega alla luce dell’esigenza di evitare che un principio condivisibile crei un potere arbitrario di valutazione dei contenuti, ripercorrendo l’esperienza del Ministero di cultura popolare, e, al contempo di discriminare pubblicazioni di elevato valore.
Conclusioni
In conclusione, da operatori del settore, riteniamo che la riforma sia non solo utile, ma necessaria. Concordiamo anche sulla necessità di procedere alla stessa con urgenza, in modo da introdurre uno strumento di politica industriale e culturale che preservi il pluralismo, che è un valore per il nostro Paese.
Una buona riforma può essere approvata anche con tempi celeri, ma tenendo conto della realtà; in questa prospettiva abbiamo sviluppato le nostre riflessioni su alcuni punti cardine del testo in discussione.